La plastica è il materiale di cui sono fatti la maggior parte degli oggetti che quotidianamente utilizziamo, dalle auto ai vestiti, dai giocattoli agli utensili da cucina, agli imballaggi.
Ogni anno il mondo ne produce circa 340 milioni di tonnellate, una quantità sufficiente per riempire tutti i grattacieli di New York.
Ormai da decenni, gli scienziati di tutto il mondo stanno studiando e fornendo prove inconfutabili sulla pericolosità che lo smaltimento di questo onnipresente materiale, sta provocando non solo all’ambiente ma alla nostra salute e a quella delle generazioni future.
Una prima presa di coscienza sull’argomento avvenne nel 1993, quando la produzione mondiale di plastica passò dai 2,1 milioni di tonnellate del 1950 ai 147 milioni del 1993 (407 milioni nel 2015). Ma fu solo nel 2004 che si iniziò a parlare di microplastiche e delle conseguenze allarmanti della dispersione di queste nei nostri mari. La definizione del termine si deve all’oceanografo dell’università di Plymouth Richard Thompson, che lo usò per descrivere quei miliardi di minuscoli pezzi di plastica, frutto della disgregazione di oggetti più grandi o prodotti appositamente a scopi commerciali.
Negli ultimi anni gli studi sugli effetti delle microplastiche sull’ambiente stanno crescendo in maniera esponenziale.
Gli scienziati hanno trovato microplastiche ovunque: nei sedimenti dei fondali oceanici, nel ghiaccio che galleggia nell’Artico, nella pancia dei pesci più piccoli come il krill di cui si nutrono la maggior parte dei pesci nel mare. Ma non solo. In alcune spiagge dell’isola di Hawaii, il 15% della sabbia è in realtà composto di granuli di microplastica.
Il fenomeno ha forse iniziato realmente a sconvolgerci, quando è arrivato a “toccarci la pelle”.
A metà degli anni ’90 infatti le aziende cominciarono ad inserire nei cosmetici e nei prodotti per la pulizia, i microgranuli, ovvero minuscoli granelli di plastica che servivano a renderli più abrasivi, sostituendo i naturali semi macinati o frammenti di pietra pomice.
Nel 2010 gli scienziati lanciarono il primo allarme: le microplastiche stavano scorrendo nei tubi di scarico di milioni di docce e presto si sarà scoperto che perfino i tessuti sintetici quali nylon e poliestere rilasciano ad ogni ciclo di lavaggio, migliaia di microscopiche fibre di plastica. Nel 2015 il congresso statunitense ha esaminato una proposta di parziale messa al bando dei cosmetici che contengono microplastiche.
Nel 2016 Greenpeace ha lanciato una petizione per mettere al bando le microplastiche nel Regno Unito e sono state raccolte più di 365mila adesioni in appena 4 mesi. È stata la petizione ambientalista con il maggior numero di firme che sia mai stata presentata ad un governo. Oggi una legge vieta l’utilizzo delle microplastiche all’interno di cosmetici e prodotti per l’igiene personale in moltissimi paesi dell’Unione Europea, in Inghilterra, in Canada e negli Stati Uniti.
Così come la Francia ha dichiarato di voler proibire l’uso di piatti e bicchieri di plastica entro il 2020, l’Italia nel 2019 ha messo al bando i cotton fioc e il Kenya si è unito al crescente numero di paesi che vietano l’utilizzo di sacchetti di plastica. Sempre lo scienziato Richard Thompson è convinto che la vera soluzione sia impedire alla plastica di finire in mare, ma anche rivedere il nostro atteggiamento quotidiano nei confronti della plastica.
Certo è che nonostante tutti questi virtuosi provvedimenti, la strada da percorrere per liberarsi da questo “nemico invisibile” è ancora lunga e probabilmente non sarà possibile trovare una soluzione definitiva ad un errore commesso a monte.
Perché forse si tratta proprio di questo, un errore di progettazione, che oggi ci spinge tutti a chiederci com’è potuto succedere.
Fonti dell’articolo: “Usciamo dalla Plastica”, AA.VV., Internazionale, 21/27 dicembre 2018, n.1287, anno 26 “Plastica”, Parker Laura, National Geographic Italia, Giugno 2018